RIDEFINIRE
Antonio Raciti
Palazzo Platamone, Catania
Settembre 2019
Porsi di fronte a un’immagine e osservarla è un invito.
Un invito a ripensare l’attività umana in relazione alle cose, allo spazio, agli altri.
Un invito a riconsiderare gli stessi oggetti, le forme, la qualità e la quantità, persino i colori e la luce.
Porsi di fronte a un’immagine e osservarla è il tentativo di guardare con occhi nuovi e, al contempo, antiche consapevolezze, perché se un’attitudine razionale ci induce a classificare, uno sforzo genuino ce ne libera.
Tutto ciò che ciascuna immagine ci restituisce, sarà ben più misterioso della creatività individuale di colui che l’ha generata perché si farà proiezione delle nostre riflessioni, ombre dei nostri timori, angoli vivi dei nostri limiti, distese dei nostri pensieri e pieghe smussate dei nostri desideri.
Su tali basi nasce “Ri-definire” di Antonio Raciti, un’esposizione di 26 scatti, in bianco/nero e colori, che ritraggono scorci, luoghi e cose dove il suo occhio si è poggiato nel corso degli anni nel suo errare e che, insieme per la prima volta, creano un puzzle variegato unito da un unico comune denominatore, la forma.
Fili di ragnatela corrispondono a resistenti travi di acciaio del Forth Bridge in Scozia;
I segni evidenti, naturalmente incisi, delle betulle bianche fanno da contraltare alle ombre che arcate di cemento disegnano sui muri di un vicolo di Yazd, in Iran;
Gusci di lumache ammassate rimandano all’architettura sinuosa del Ponte della Pace a Tiblisi, in Georgia;
I buffi granchi disposti a schieramento alla mercé delle maree ricordano i galleggianti delle reti dei pescatori nel tramonto immenso di Zanzibar;
Uccelli si stagliano, liberi, su un cielo di un fitto blu chagalliano al di sopra di un’architettura che lo incornicia, e un altro, solitario, altrettanto libero sorvola le acque, impressioniste, dell’isola africana.
Le mani di un uomo e una donna che avvicinandosi si sfiorano mentre i loro sguardi si cercano sono simili tanto nei preziosi rituali di un matrimonio shintoista in Giappone, quanto nei giovani pomeriggi più modaioli dell’occidentale Gallipoli.
Così come le madeleine di Proust, immerse nel tè di tiglio, aprono una via d’ingresso privilegiata nella memoria liberando un ricordo, anche le fotografie di Raciti esortano a fare altrettanto, a richiamare quella memoria che non è solo percettiva o visuale ma è anche del corpo e dello spazio, corpo e spazio dilatati, diluiti. La memoria che ci ricorda come siamo fatti e cosa ci circonda.
La forma, sostanza dell’immagine, si ri-definisce e ci invita ad un altrove, ad un non luogo potente nel quale siamo stati o dove ancora dovremo stare e nella forma così esposta prendiamo atto. In fondo, non siamo che forme, accesi di luce proiettiamo ombre, un yin e yang continuo intramezzato di colore e nel colore agiamo, ri-definendoci, ridisegnando noi stessi. Talvolta siamo cactus protesi al sole ad aspettare, altre siamo lampioni che illuminano la via, altre ancora siamo capitelli e archi lobati, ogivali, siamo da soli o in coppia….diveniamo come bifore, siamo nuvole che si inseguono, case che si fingono roccia e scale da apprezzare ad ogni gradino.
Ci ri-definiamo perché non possiamo farne a meno, perché a questo invito, per il quale vale la pena presentarsi anche se talvolta va ben oltre la comprensione umana, non possiamo rinunciare.
Laura Cavallaro